Un libro, che non sarà facile dimenticare, ci parla di legami di sangue, di amore materno, carnale e adottivo, parla della passione tzigana che si alza nel cielo fino a toccare la luna. Lila con la sua tragicità balcanica che sembra uscire dalle ballate omeriche ti rimane nel cuore per sempre.
Eleni e Lila sono amiche da sempre, innamorate dello stesso uomo. Ma la nascita di Arlind spezza il loro legame come il canto degli tzigani spezza il silenzio dell’alba. Si può rinunciare a un figlio per tenere fede a una promessa?
Anilda Ibrahimi ci racconta una storia di emozioni incandescenti, in cui il riso e il pianto s’inseguono, regalandoci la poesia di un piccolo mondo quasi miracoloso.
Lila ed Eleni sembrano inseparabili. Le corse al fiume dopo la scuola e i primi sospiri per lo stesso ragazzo, Andrea. Ma una vecchia tzigana legge sulle loro mani la «tagliente nostalgia» della separazione. Lila infatti va a studiare nella capitale, diventa maestra e sposa Niko, il fratello di Andrea. Eleni invece resta a Urta, l’aspro villaggio in cui entrambe sono cresciute, ad aspettare la sua sorte.
E la sorte gioca con le vite delle due amiche, riunendole «come due ruscelli d’acqua che si gettano nello stesso fiume».
Lila sogna che partorirà un’altra femmina, la quarta. Perciò promette di darla in adozione a Eleni, che nel frattempo è riuscita a sposare Andrea, abbandonato dalla prima moglie ma ancora legato a lei da una specie di incantesimo.
Quando nascerà un maschio, Arlind, Lila rinuncerà lo stesso a lui, per non venire meno alla parola data, per non sfidare il destino. Ma forse non si può cancellare del tutto la traccia del sangue.
Affabulatrice naturale, Anilda Ibrahimi orchestra una trama avvincente con la leggerezza e la cruda ironia che la contraddistinguono. Sullo sfondo, l’Albania travolta dai cambiamenti sociopolitici. Ma si tratta in realtà di una storia dal respiro universale, senza tempo, che attraverso personaggi quasi archetipici, tragici in senso classico, smuove le nostre emozioni e ci interroga sui temi che ci appassionano da sempre: l’identità, i legami famigliari – quelli di sangue e quelli acquisiti – e l’esistenza di quel destino «che ci portiamo addosso insieme al nostro respiro».
«A volte le sembra di sentire una voce che ripete all’infinito: si amano solo i figli veri. Adottare un bambino è come giocare alla mamma. Quel gioco che da piccola si fa per imitare i grandi, e che ora da grandi non si può fare senza sembrare ridicola».