Noi. Pronome personale, stando alla grammatica. Tempo verbale collettivo, presente plurale, come sa invece chiunque abbia vissuto qui. A Crabas, chiunque sia cresciuto giocando nella stessa strada sa bene che solo così si diventa noi, fratelli davvero, più che per accidentali legami di parentela. Il noi più compiuto, autentico, è quello della comunità che vive di un respiro corale, scandito dal passo lento della fede. A Crabas, la chiesa parrocchiale con il suo pantheon sincretico è l’architrave della struttura sociale. Non c’è categoria di lavoratori cui manchi il santo di riferimento, o festa di popolo che non orbiti intorno al sagrato. Insomma qui noi è tutto, è l’orizzonte visibile, il senso stesso della vita: per spiegare il mondo non c’è bisogno di aggiungere altro. E non è facile abituarsi a tutto questo per un bambino di dieci anni, figlio unico che ha più dimestichezza con la misura dell’io. Tanto meno quando al noi si manifesta per la prima volta lo spettro del loro: quello che noi non siamo. Un’entità che assume le sembianze di una nuova parrocchia venuta a dividere il paese, portando scompiglio nei riti, nelle usanze, nella percezione ancestrale del noi. Qui a Crabas, è certo che il giorno di Pasqua succederà qualcosa.