“Si, Constance, a te dedico quest’opera; esempio e onore del tuo sesso, tu congiungi la più sensibile tra le anime all’intelligenza più equa e più illuminata: chi altri potrebbe conoscere la dolcezza delle lagrime che strappa la Virtù perseguitata dalle sventure?”
Justine ovvero Le disavventure della virtù (1791) è la prima opera pubblicata da Donatien-Alphonse-François marchese de Sade. Apologia della voluttà del male, esaltazione del connubio tra razionalità autoritaria e sessualità ossessiva, Justine rivela la vocazione “rivoluzionaria” di Sade allo smascheramento, la sua volontà di “dire tutto”, che scatena lo straripamento inarrestabile della parola. A lungo trascurato a favore della successiva stesura (quella più lunga e radicale della Nouvelle Justine, alla quale è rimasta legata la fama del “divino marchese”, sia che lo si esecrasse come sordido pornografo si ache lo si esaltasse come rivoluzionario del costume), Justine merita di essere valutato per quello che è, indipendentemente da ogni paragone: un romanzo nero, secondo la voga degli anni in cui fu scritto, pervaso da uno humour crudele, da un’ironia ambigua e sfuggente che va inevitabilmente perduta nelle grandi costruzioni delle 120 giornate di Sodoma o della seconda parte della Nouvelle Justine.