Un secolo di storia italiana sulle tracce di un protagonista, di uno stile, un gusto, una cultura, un mondo che erano soltanto suoi e che sono diventati nostri.
«Ci sono mille Scalfari e tutti mi somigliano un po’, con una vita molteplice e ormai indipendente dalla mia. Credo sia inevitabile, anche se so bene che il mito è nemico della storia. E però voglio provarci a raccontare questa lunga vicenda che è stata la mia vita nelle parti scomposte, nel flusso dei ricordi ora interrotti e ora ripresi. E chissà che, andando a caccia di dettagli incustoditi e fuori campo, non si possa acchiappare meglio la totalità del campo».
Tra disincantato bilancio e apertura al futuro, Eugenio Scalfari si mette a nudo in un confronto serrato con due maestri del giornalismo. Dall’incontro con la penna acuminata di Francesco Merlo e le pungenti esortazioni di Antonio Gnoli, nasce un dialogo sulle cose del mondo, deposito di una memoria inestimabile fitta di rivelazioni sulle metamorfosi che hanno investito il giornalismo, ma soprattutto le vicende del paese negli ultimi settant’anni. Gli incontri/scontri con figure di primo piano della storia e della cultura italiana: dall’amicizia con Italo Calvino, compagno di banco al liceo, agli scambi con Mario Pannunzio e Arrigo Benedetti, da Adriano Olivetti a Leo Longanesi, da Silvio Berlusconi a Carlo de Benedetti, da Enrico Berlinguer a Matteo Renzi. Al centro del racconto, naturalmente, «una certa idea di giornalismo», che lo ha portato nel 1976 alla fondazione di «Repubblica» sul cui destino si interroga: cosa resta oggi dell’identità del quotidiano e quanto ha a che fare con l’identità di Eugenio Scalfari e in generale dell’Italia repubblicana?
Proposto al Premio Strega 2020 da Pietrangelo Buttafuoco: «Rigogliosa ed esuberante galleria di specchi in cui il romanzo di IO scritto in prima persona ha la stessa cifra anagrafica dell’ES. “Grand Hotel Scalfari” oltrepassa i recinti delle maniere (risulta di fatto essere più ricco di personaggi e storie di tante narrazioni della novella vaghezza dei nostri anni) e della cosiddetta “lingua” come nessun cosiddetto scrittore ombelicale in Italia saprebbero fare oggi, offrendosi come capolavoro di vera letteratura. Frutto della capacità di ascolto e dell’arte del racconto di due esempi diversissimi eppure installati nella più pura tradizione del giornalismo del nostro paese, Antonio Gnoli e Francesco Merlo, è più di un pretesto per il racconto di un mondo perduto che ha le parvenze della nostra recente vicenda nazionale, una cronaca in prima persona esuberante e malinconica, mediata da uno sguardo complice e da una sontuosa messa in scena del privato, è allo stesso tempo un libro che rappresenta Scalfari più di quanto il suo protagonista sarebbe riuscito a fare. Forte di una vera scrittura il personaggio ES ha finalmente trovato il suo autore, anzi, ben due: Merlo e Gnoli. Se di genere qui si tratta forse si applica come richiamo il romanzo di cavalleria, al modo di un Don Chisciotte e di un Sancho Panza: senza cautele e senza censure, gli autori svelano a se stesso il loro stesso creatore facendone infatti un personaggio totale, un don Eugenio de Cervantes ovviamente irriconoscibile agli occhi degli stessi scalfariani, che mai e poi mai saprebbero pensarlo libertino tra le delizie di un bordello o tra Casinò fin de siecle, in camicia nera, a braccetto con Indro Montanelli o alle prese con il suo ormone femminile.»