Vincitore del Premio Campiello nel 1981 e sicuramente il romanzo più noto di quel genio letterario siciliano chiamato Gesualdo Bufalino, “Diceria dell’untore” è una straordinaria opera letteraria della narrativa italiana. Un libro da leggere con la matita alla mano, pronti a sottolineare ed annotare le gemme da ricordare.
“Diceria dell’untore” racconta di un amore, in un sanatorio del dopoguerra, fra due malati, un incontro-scontro fra due anime piene di inquietudine e di passione. Più che la storia, che poi in realtà è breve e anche abbastanza scontata, ciò che colpisce è appunto la narrazione, tramata d’estasi, barocca, a tratti lirica, e la complessità dei temi che porta in superficie, dall’inutilità della fede alla fatalità.
Nel 1946, in un sanatorio della Conca d’oro – castello d’Atlante e campo di sterminio – alcuni singolari personaggi, reduci dalla guerra, e presumibilmente inguaribili, duellano debolmente con se stessi e con gli altri, in attesa della morte. Lunghi duelli di gesti e di parole; di parole soprattutto: febbricitanti, tenere, barocche – a gara con il barocco di una terra che ama l’iperbole e l’eccesso. Tema dominante, la morte: e si dirama sottilmente, si mimetizza, si nasconde, svaria, musicalmente riappare. E questo sotto i drappeggi di una scrittura in bilico fra strazio e falsetto, e in uno spazio che è sempre al di qua o al di là della storia – e potrebbe anche simulare un palcoscenico o la nebbia di un sogno… «Ingegnoso nemico di se stesso», finora sfuggito a ogni tentazione e proposta di pubblicare, uomo, insomma, che ha letto tutti i libri senza cedere a pubblicarne uno suo, Gesualdo Bufalino è con questa Diceria al suo primo libro. Scritta negli anni, come lui dice, «della glaciazione neorealista», questa contemplazione viene alle stampe in un tempo meno gelido, più sciolto e più libero perché sia giustamente apprezzata.