Può un uomo uccidere solo perché è onesto? Perché vede minacciato il grano di pulizia al quale si aggrappa per giustificare se stesso e il proprio destino? Oppure chi lo faccia dev’essere considerato irresponsabile, incapace d’intendere e di volere? Le domande che su questa linea si pone Simenon implicano, oltre alla vicenda delittuosa, tutto il mondo che gravita sui protagonisti. Chi uccide è un tipico cittadino della provincia francese, in regola con la legge, con l’anagrafe e (apparentemente) coi sentimenti privati. Ma il movente del suo delitto, appunto per l’eccezionalità che mostra, spinge funzionar! di polizia e psichiatri a indagare al di sotto di quel che si vede. Interrogatori e confessioni, a fuoco incrociato, conferiscono alla narrazione un ritmo eccezionale: inquadrano, definiscono, mettono a segno. Se non chc c’è qualcosa che sfugge sino all’ultimo. La verità, dopotutto, è sempre “in fondo al sacco”, e in un delitto novanta volte su cento si tratta di una verità d’ordine sessuale. La forza d’indagine e di rappresentazione di Simenon — di un Simenon che lavora da maestro anche su una tastiera freudiana — rivela qui che differenza passi tra un “perché” che serva solo a incasellare burocraticamente un crimine, e un “perché” capace di portare a galla le ragioni effettive, inconsce, dello stesso reato. Forse Simenon non aveva mai lavorato con tanta sottigliezza e tanta padronanza, sia sul piano dei fatti che su quello delle idee.