19 Gen PAOLO BORSELLINO: ancora e sempre vivo
Il quartiere della Kalsa, uno dei più antichi quartieri di Palermo (il cui nome richiama il periodo risalente alla dominazione islamica in terra siciliana), deve il suo nome particolare derivato dal termine al khalisa (“l’eletta” o anche “la pura”) proprio ai vecchi dominatori arabi.
Passeggiando per le strade della Kalsa saltano immediatamente agli occhi lo stridore dei palazzi arabeggianti, le strade popolari ed i palazzi più nobili. Appare da subito culturalmente molto vivace, con piccoli laboratori artigianali, musei, chiese e localini davvero speciali, riuscendo a mantenere la sua aurea popolare e amalgamando il tutto in una caratteristica atmosfera arabo-siciliana. Ciò che incanta di questo quartiere è la tranquillità che l’avvolge. Perlomeno durante il giorno, prima che le sue piazze diventino punti nevralgici della movida notturna.
Non è difficile immaginare per le strade di questo quartiere incastonato nel cuore di Palermo decine di ragazzini scorrazzare qua e là con il pallone al piede, ridere e prendersi in giro perennemente fino al calar del sole.
Non è difficile immaginare tra questi ragazzini, ottant’anni fa, in pieno dopoguerra, due o tre ragazzini in particolare. Uno di questi, nato in via Vetriera, in quella che prima della guerra era una strada con palazzi nobiliari abitati da professori e commercianti che condividevano il quartiere con il popolino, abitava al civico 57 con i suoi genitori ed i suoi fratelli: un ragazzetto di nome Paolo.
Vivace, come tutti i suoi coetanei passava tanto tempo sui libri della scuola quanto per strada a giocare con i compagni di sempre, tra i quali Giovanni, di poco più grande di lui.
La Kalsa era all’epoca un contenitore di umanità tanto diverse tra loro: potevi incontrare il nobile decaduto, il notaio, quanto il pescivendolo intento a “sciarrarsi” con una cliente per strada, potevi incappare in ragazzini impettiti ed incellofanati ed altri sporchi da capo a piede, intenti in furberie di ogni tipo, veloci di mano e di testa più di chiunque altro. Tra i ragazzetti furbi di mano e meno di testa c’era un altro ragazzino di nome anche lui Giovanni, ma a differenza dell’altro meno sornione, più incline ai dispetti, alla violenza anche immotivata nei confronti degli altri.
Dopo la guerra, per Paolo e la sua famiglia iniziarono tempi duri.
La Kalsa, quella che più di mille anni prima era approdo di emiri e condottieri, era divenuto poco più che un quartiere sopravvissuto ai bombardamenti. La farmacia di via della Vetreria del papà non ha più i clienti di una volta, così la famiglia di Paolo cambia casa. Vanno ad abitare in una più piccola, in via Roma.
I dolci solo la domenica, alla Marina, sotto la passeggiata delle Mura delle Cattive.
Dopo le medie Paolo s’iscrive al «Meli», il liceo classico. La maturità nel 1958. Poi Giurisprudenza. E la politica. Entra alla «Giovane Italia» che poi diventerà Fuan, il Fronte Universitario di Azione Nazionale. È un movimento neofascista.
Davanti alle facoltà ci sono sempre scontri fra studenti. Una mattina c’è una rissa violenta. Feriti. Lì in mezzo c’è anche lui.
Lo denunciano. L’inchiesta finisce a Cesare Terranova, un magistrato che non nasconde le sue simpatie per i comunisti, ucciso nel 1979 per mano della Mafia, quando della mafia a Palermo si sussurrava solo. Paolo Borsellino viene ascoltato in Tribunale. Dice che non c’entra niente con il pestaggio. Terranova gli crede e archivia.
Questi tre ragazzi crescendo avrebbero preso strade differenti: Paolo e Giovanni sarebbero diventati due magistrati, l’altro avrebbe preso una strada diversa che, per uno strano scherzo del destino, avrebbe portato i tre ad incontrarsi di nuovo.
Paolo e Giovanni continueranno ad essere amici.
Insieme saranno conosciuti come gli eroi dell’antimafia, i paladini della giustizia vera e non faziosa, quella che non scende a patti, pagandone le conseguenze.
In pochi sanno, conoscono l’aspetto umano. Di Paolo fervente cattolico, uomo di destra, serio integerrimo ma anche ironico, sornione, protettivo, simpatico con i colleghi, gli amici, la famiglia, i figli.
“ ‘U zi” … così lo chiamavamo. Un uomo semplice, uno di noi. A volte si arrabbiava, perché non riusciva a mettere in moto la sua Vespa al primo colpo. “Zi’ Paolo, si mittissi ri sciancu, ca ci pensu io!”. Una lacrima solca il viso di uno degli uomini che negli anni è stato la sua ombra, la sua scorta. “Al mio intervento la moto partiva, lui saliva dietro e scorrazzavamo per le vie di Palermo, con i capelli al vento. E lui era divertito come un bambino”.
“Falcone aveva un carattere burbero, a volte scontroso, soprattutto con gli uomini delle scorte dai quali pretendeva sempre il massimo”, prosegue il racconto da parte del veterano delle scorte a Palermo. “Paolo no! Paolo era buono, comprensivo, passava tanto tempo con noi, anche a bere un caffè, eravamo parte integrante della sua vita e accettava sempre i nostri consigli nel campo della sicurezza”.
Gli eroi spesso assumono delle sembianze quasi mitologiche, irreali a tratti fantasiose. Gli eroi, quelli veri, sono in realtà più umani di tanti altri e proprio grazie al loro senso di umanità riescono ad individuare ciò che è giusto fare. Anche se il prezzo da pagare è in genere molto alto.
In tanti anni dalla morte di Paolo Borsellino sono stati tanti i fiumi di inchiostro e retorica versati su quella che è stata la strage che ha posto fine alla sua vita, in pochi ricordano però la sua vita fatta di tanto altro e non solo di lotta alla mafia e di schiena dritta nei confronti dei picciotti di mafia e dei colletti bianchi. Quando Paolo incontra l’altro Giovanni in un’aula bunker, quel Giovanni che aveva imboccato un’altra strada, diversa dalla sua e di Giovanni Falcone, la Kalsa si riunisce di nuovo.
Si rincorrono, si scrutano, si attaccano, “giocano” a guardia e ladro.
Il gioco finisce quando in via D’amelio un’auto esplode e con lui il corpo di Paolo, ma non il suo sorriso, il suo spirito beffardo e sornione.
Lui vive tutt’oggi, non nelle placche e nelle commemorazioni annuali il 19 luglio. Rivive nei ricordi di chi lo ha amato, di chi lo ha conosciuto veramente e di chi di quegli anni conserva la sua eredità.
Rivive nei vicoli della Kalsa.
Il sorriso di Paolo non esplode con quell’auto, il sorriso resta nei ricordi di chi ha avuto il privilegio di vederlo, nascosto sotto i baffi, ma sincero. Come è successo pochi mesi prima della sua morte ad una bambina di nove anni che ha avuto il privilegio di incontrare Giovanni e Paolo, Falcone e Borsellino, gli uomini e i magistrati, nel salone di una scuola. Quella bambina era in prima fila, curiosa, attenta, pronta a dire la sua, come al solito. L’incontro durò un’ora e nelle fasi finali fu chiesto a bambini e ragazzi di fare qualche domanda. La bimba in prima fila alzò subito la mano, convinta che la sua domanda fosse importante. Si sentiva grande in quel momento, perciò, fiera di sé e sicura, chiese ad entrambi “Perché tutti i giudici portano i baffi?”
A distanza di più di trent’anni ripensare a quella domanda fa sorridere, rievoca le risate di Paolo e Giovanni, i sorrisi degli uomini della scorta ed il rossore sulle guance delle insegnanti.
Regala ancora un brivido ripensare alle risposte.
Giovanni si sfiorò i baffi, guardò la bambina e le disse: “Non lo so se tutti i magistrati hanno i baffi, però posso dirti una cosa: questi baffi ci hanno salvato la vita tante volte, nascondendo sorrisi o smorfie di disappunto.” Paolo continuò quel ragionamento e disse: “Se tu confessassi una marachella, un brutto gesto commesso o se qualcuno lo dicesse a te, il tuo viso racconterebbe una reazione. Ecco, noi giudici, quando parliamo con i mafiosi, dobbiamo stare attenti alle nostre reazioni. In questo i baffi aiutano”.
Prima di uscire da quel grande salone, Paolo e Giovanni permisero ai bambini di avvicinarsi ed a lei donarono una carezza, laddove lei aveva teso la mano per stringergliela. La bambina disse loro una frase a cui pensa ancora oggi: “Da grande voglio essere come voi, giusta e simpatica, ma senza baffi”.
Poco tempo dopo, il 23 maggio 1992, quella stessa bambina rientrava a casa con in mano l’abito per la prima comunione che si sarebbe tenuta il giorno dopo, ma suo padre, bianco in volto, la guardò, guardò la sua mamma e disse “Lo hanno ammazzato”. La bimba capì subito e non stacco gli occhi dai notiziari per tutto il tempo, per tutti quei 57 giorni.
Il cinquantasettesimo giorno sua madre la chiamò dal cortile, ed ancora una volta capì, una cosa brutta era successa: gli occhi di Caponnetto e quella frase “È finito tutto” spiegarono ogni cosa.
Da allora Paolo e Giovanni sono delle guide per quella bambina. Non passa anno in cui non faccia percorsi sulla legalità e la giustizia. Non passa anno in cui la bambina, ormai donna adulta, non ripensi a quelle parole.
Quella bambina sono io, grata alla vita per aver conosciuto Paolo Borsellino e Giovanni Falcone, per aver mosso passi consapevoli nel loro stesso tempo. Non so se sono stata capace davvero di far tesoro dei loro insegnamenti, ma di certo il mio impegno è costante.
Il sorriso di Paolo non è morto in quella esplosione, le sue parole neanche.