22 Nov IL PANE NELLA LETTERATURA
Un tempo il pane era considerato bene primario, simbolo di aggregazione familiare, posto al centro della tavola. Oggi è sicuramente alimento ma preferisco definirlo nutriente e portatore di un valore culturale importante.
Il pane è buono perchè racconta una storia, anzi non una ma tante. Infatti nella letteratura il pane e chi lo crea (come panettieri e fornai) sono spesso menzionati.
Nel capolavoro di Alessandro Manzoni “I promessi Sposi” c’è quel filo bianco di farina che segna luoghi e momenti importanti della storia, e si materializza in forme diverse di pane, che da alimento diviene icona, non più della fame, ma della giustizia, della speranza e del perdono. Al grido di «pane e abbondanza» pronunciato da Antonio Ferrer, il popolo risponderà a gran voce «pane e giustizia».
Poi c’è il pane ritrovato da Renzo al rientro a Milano, che riceve seguendo delle «strisce bianche e soffici, come neve», un pane tondo e «bianchissimo» che «non era solito mangiare che nelle solennità» (Cap. XI, 405); poi il «pane della provvidenza», il terzo e ultimo di quei pani sparsi durante i tumulti e raccolti sotto la croce di San Dionigi, che il giovane alza in aria come trofeo all’osteria della Luna Piena (Cap. XIV, 170); in seguito, il pane della solidarietà che il fornaio di Monza offre a Renzo «sur una piccola pala» (Cap. XXXIII, 515).
Infine c’è il pane ricevuto da Fra Cristoforo, avuto come prova di perdono dal fratello del nobile che Lodovico (è questo il nome del frate prima di indossare la tonaca) uccide in duello: il pane del perdono quindi, di cui «serbò un pezzo, e lo ripose nella sporta, per tenerlo, come un ricordo perpetuo» (Cap. IV, 370), lo stesso che lui darà in dono a Renzo e Lucia nel Lazzaretto, alla fine del romanzo.
«Lo lascio a voi altri: serbatelo; fatelo vedere ai vostri figliuoli. Verranno in un tristo mondo, e in tristi tempi, in mezzo a’ superbi e a’ provocatori: dite loro che perdonino sempre, sempre! tutto, tutto! e che preghino, anche loro, per il povero frate!» (Cap. XXXVI, 460).
Avevate mai notato questo percorso creato dall’autore attraverso il pane? Un unico cibo latore di molteplici significati, l’ennesima conferma della grandezza di questo classico e del suo autore.
Grazia Deledda, nel racconto Pane casalingo, ci presenta una scena familiare impegnata nell’arte della panificazione: semplici attrezzi, gesti antichi, leggende narrate a bassa voce, identificano il pane come dono.
“Fare il pane in casa, come tuttora si usa in moltissime case anche borghesi delle provincie italiane, non è una cosa facile e semplice quale si potrebbe credere. Mia madre, nella nostra casa di Nuoro, giunto il momento d’iniziare la faccenda, prendeva un aspetto più del solito attento, serio, quasi sacerdotale.
La mano sottile ed esperta provava, versava, palpava il contenuto delle corbe di asfodelo, preparava il largo canestro, i setacci col fondo di seta, i vagli sottili e lucenti come intessuti di fili d’oro; separava la farina dalla crusca, il fiore bianco della farina da quello bruno, il semolino dalla semola color d’avorio. Ella ne usciva tutta incipriata, pronta come per una festa.
Veniva poi fuori il lievito, dal ripostiglio dove, entro una scodella dorata che sembrava un vaso sacro, lo si conservava dall’una all’altra cottura del pane; e sopra il mucchio che lo accoglieva e seppelliva, sciolto come una linfa vitale, la mano bianca di farina segnava una croce: croce che veniva ripetuta sul viso prono come a specchiarsi nel cerchio della corba preziosa.
Del pane fresco ne veniva mandato uno o due in regalo a parenti e vicini di casa, che a loro volta lo restituivano nei giorni della loro cottura: se capitava un amico, od anche un occulto nemico, e soprattutto un povero o un mendicante, si ripeteva l’offerta; e se il mendicante arrivava per caso di lontano ed era sconosciuto, pensavano che potesse nascondere la persona di Lui. Lui! Il solo che può prendere migliaia e migliaia di forme per provare il cuore del prossimo: Lui, che scelse appunto il pane per la sua comunione d’amore con l’uomo”.
Maurizio De Giovanni in Pane per i Bastardi di Pizzofalcone colora di giallo quest’alimento, ma riesce a donarci tutta la sua ricchezza culturale e sensoriale. Il romanzo inizia con la fragranza di una favola, il sapore semplice di una storia antica, di una tradizione che si ripete. Pasqualino tutte le mattine si alza all’alba per preparare il pane per il suo quartiere seguendo la ricetta tramandata da secoli e le antiche tradizioni di panificazione, un impasto antico che profuma d’amore e che ha il sapore della devozione e della cura.
“Perché questo è un panificio tradizionale. Vedete quella roba, ispetto’? – indicò l’involto. – Viene dal passato. Non dico come invenzione, dico proprio quel lievito lì. Pensate che è stato fatto dal nonno di mio cognato, e ogni mattina all’alba lui viene…veniva per lavorarlo. Qua entrava solo lui.”
Dacia Maraini nel suo libro epistolare “Dolce per sè” definisce il suo impegno di scrittrice un lavoro artigianale come quello del panettiere e non esita ad affermare quanto le piaccia gustarlo.
“Il mio è un lavoro da artigiana, lo sai, non molto dissimile da quello di un buon panettiere che mescola la farina con cura, misura il lievito, aspetta pazientemente che la pasta prenda corpo, la lavora per ore dando “olio ai gomiti” come diceva mio nonno e infine, la inforna, la fa cuocere e quando il pane è caldo, lo mette in vendita sperando che sia mangiato con gusto.
A me il pane piace moltissimo. Non conosco niente di più succulento di un pezzo di pane caldo intinto nell’olio d’oliva. Lo sai che quando vado a Palermo torno con la valigia piena di pane; il “rimacinato” come lo chiamano i palermitani, è un pane spugnoso e giallastro, di pasta densa e crosta dura, coperta di semi di cumino. Un pane profumato che chiede di essere mangiato. Sono i libri e il pane che rendono pesanti le mie valigie.”
Il pane è l’alimento che tutto unisce e che tutto accompagna, proprio come il nostro blog.
Mariarosaria Rigido e Assunta Aulicino