A Casa di Lucia | 2 OTTOBRE: LA FESTA DEI NONNI
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2 OTTOBRE: LA FESTA DEI NONNI

“Mio nonno non trema, e la barba di neve gli spunta in faccia solo al mattino. È fatta di schiuma, è soffice e lieve come una nuvola. «Ne vuoi un pochino?».”(Chiara Ingrao – “Nonni in gioco”)

Gli occhi ancora annebbiati dal sonno, il tepore di una casa piccola ma accogliente, svegliarsi quindi con l’odore inconfondibile del ragù che, dalla cucina, silenziosamente brontola in attesa di essere buttato sui maccheroni.

Piangere perchè mamma o papà ti hanno sgridato troppo o perché non hai proprio voglia di andare a scuola il giorno dopo, perché vorresti tanto un altro gelato o un po’ di Coca Cola, anche se fa male e mamma non vuole. E subito dopo, nel momento in cui ti sentivi sconsolato, ti veniva lasciato un bacio umido sulla guancia, ecco un abbraccio consolatorio o un gelato passato di nascosto tra le pieghe del vestito di casa.

Beh, se dovessi raccontare dei miei nonni lo farei proprio così. 

Teneri, accondiscendenti, pazienti nel coccolare e viziare i figli dei figli con i quali invece sono spesso stati genitori severi se non pretenziosi.

I nonni oggi si festeggiano relativamente da poco. Rispetto a tante altre giornate dedicate sul calendario è però, a mio parere, una delle poche a rappresentare il giusto incontro tra società e tradizione religiosa.

Ufficializzata dalle istituzioni, in calendario ricorre il 2 ottobre, nel giorno dedicato agli Angeli Custodi.

E infatti è proprio questo che sono, perché oggi come ieri i nonni vegliano sui nipoti e la loro famigliola come degli angeli incanutiti. E se ieri rappresentavano il collante tra il passato ed il presente, onnipresenti in case dove le famiglie vivevano ancora tutte insieme, oggi hanno un ruolo ugualmente importante, seppur con modalità diverse. 

Oggi come ieri tentano di essere presenti nella vita dei propri nipoti, consapevoli di aver meno tempo a disposizione, sfruttando ogni occasione per poter lasciar loro tracce e ricordi del loro passaggio. Così oggigiorno vediamo nonni disposti ad accompagnare i nipotini a scuola, in piscina o in palestra, cimentandosi con loro nei compiti di scuola, attendendo insieme il ritorno dei genitori da lunghe ed estenuanti giornate di lavoro, consci che, con loro, ai piccoli non mancherà nulla. 

Nel mio personalissimo caso, ma sono sicura simile a tanti altri, i miei non erano assolutamente dei nonni moderni, così come se ne vedono oggi: rappresentavano il classico stereotipo dei nonni napoletani vecchio stampo, di quelli che venivano descritti nei film in bianco e nero di qualche decennio fa.

I miei genitori ed i miei zii si rivolgevano loro dando del “voi”. 

Mio nonno quando usciva in inverno indossava sempre un cappello di feltro ed ogni mattina lucidava le scarpe con estrema cura, ascoltava le partite del Napoli alla radio e, quando mi portava a passeggio, raccontava sempre qualche storia sulle strade che percorrevamo. Ascoltava musica antica alla quale non ero abituata; ma soprattutto ascoltava per ore e con pazienza i miei racconti di bambina.

Nonna teneva tanto all’ordine, indossava sempre un filo sottile di perle, aveva molta cura della casa e dell’economia di quest’ultima, amava lavorare all’uncinetto, conservava le bomboniere e leggeva spesso i fotoromanzi dell’immancabile settimanale “Grand Hotel”; ma sopra ogni altra cosa le piaceva cucinare

Il rito della domenica a pranzo era sempre stato un piacere per lei, però con il passare degli anni sempre più questo piacere era legato alla presenza di noi nipoti. Amava poter cucinare per noi, poterci viziare con leccornie e manicaretti, per i quali avrebbe ricevuto i nostri applausi a cui poi avrebbe risposto con finta modestia.

Così, sin da bambina, mi ha insegnato che il ragù non è sinonimo di sugo. Non che nonna conoscesse la vera storia del ragù risalente al XVII secolo, dal francese ragout, succoso o gustoso. Piuttosto si riferiva al fatto che, mentre il sugo era semplice polpa di pomodoro con basilico, il ragù doveva essere invece preparato in maniera totalmente differente: con un bel pò di pazienza ed un variegato mix di carni, vino, cipolla, carota, uva passa e sale. 

Ricordo che, una domenica, uno dei miei cugini più grandi ebbe la malaugurata idea di raccontarle di aver mangiato in casa di amici, in occasione dell’inizio del carnevale cilentano, un gustosissimo ragù preparato alla maniera cilentana. 

In quella domenica pomeriggio fredda e soleggiata, nel salotto di casa dei miei nonni con vista sul Vesuvio, tememmo meno l’eventuale eruzione di quest’ultimo che la reazione di mia nonna! Definire ragù quello che veniva cucinato oltre i confini della città di Salerno era considerata un’eresia degna di scomunica e cacciata dal tavolo domenicale, se solo si fosse trattato di qualsiasi altro parente acquisito o amico. Ma mio cugino fu salvato solo in quanto suo nipote e se la cavò con un semplice buffetto dietro la testa.

La domenica successiva, per dimostrare a tutti noi la differenza tra i due tipi di ragù, decise di preparare quello cilentano, sottolineandone la bontà ma la differenza di consistenza, sancendone alla fine la netta inferiorità rispetto a quello tipico napoletano.

Noi commensali, ad onor del vero, apprezzammo il ragù a base di carne di coniglio allo stesso modo dell’altro, gustando con lo stesso piacere i sapori contrastanti e diversi; non osammo però farglielo notare, più per non scalfire le sue convinzioni, ormai radicate da decenni.

Qualche anno dopo, per puro caso, mi passò per le mani un libro di poesie di 

Eduardo De Fiilippo intitolato proprio “O rraù

‘O rraù ca me piace a me m’ ‘o ffaceva sulo mammà. A che m’aggio spusato a te, ne parlammo pè ne parlà. Io nun songo difficultuso; ma luvàmell’ ‘a miezo st’uso. Sì, va buono: cumme vuò tu. Mò ce avèssem’ appiccecà? Tu che dice?  Chest’è rraù? E io m’a ‘o mmagno pè m’ ‘o mangià… M’ ‘a faje dicere na parola? Chesta è carne c’ ‘a pummarola.

Leggendola, la prima persona che mi venne in mente fu proprio lei, la nonnina che si svegliava alle 5 del mattino per mettere su il pranzo per noi, per preparare a tocchetti la carne e assaggiare il vino giusto da far scivolare sulla carne.

Ricordo ancora che, quando prima di pranzo i morsi della fame iniziavano a farsi sentire ed iniziavamo a lamentarci per l’attesa spasmodica del ragù pronto per essere tuffato sui maccheroni, quasi deliranti davanti a tutte quelle leccornie di contorni ed insalate di ogni tipo già pronti sul tavolo, non ci sgridava nè tantomeno urlava: arrivava piuttosto con l’immancabile vassoio di fette di pane e zucchero. Una a testa, altrimenti avremmo perso l’appetito. A pensarci ora, se a proporcele fossero stati i nostri genitori, molto probabilmente ci saremmo lamentati o avremmo rifiutato uno spuntino così diverso da quelli a cui eravamo abituati ogni giorno, tra merendine e snack di ogni tipo. 

Ma pane e zucchero preparato da nonna aveva un altro sapore: leggermente inumidito con un filo di dolce, diventava la merenda più saporita che avessimo mai mangiato, forse proprio perché preparata da lei con calma e pazienza.

A proposito di ragù, quando si tratta di comprare i vari tipi di carne dal macellaio, spesso e volentieri mi vengono ancora in mente i consigli di mia nonna e, di tanto in tanto, la scena del film “Sabato, Domenica e Lunedì” nella quale una Sophia Loren casalinga spiega come dovrebbe essere preparato: 

Rosa Hai fatto? 

  Virginia (piagnucolando) Devo affettare queste altre due. Signo’,  ma io credo che tutta questa cipolla abbasta. 

  Rosa: Adesso mi vuoi insegnare come si fa il ragù? 

 Più ce ne metti di cipolla più aromatico e sostanzioso viene il sugo. Tutto il segreto sta nel farla soffriggere a fuoco lento. Quando soffrigge lentamente, la cipolla si consuma fino a creare intorno al pezzo di carne una specie di crosta nera; via via che ci si versa sopra il quantitativo necessario di vino bianco, la crosta si scioglie e si ottiene così quella sostanza dorata e caramellosa che si amalgama con la conserva di pomodoro e si ottiene quella salsa densa e compatta che diventa di un colore palissandro scuro quando il vero ragù è riuscito alla perfezione. 

Virginia Ma ci vuole troppo tempo. A casa mia facciamo soffriggere un poco di cipolla, poi ci mettiamo dentro pomodoro e carne e cuoce tutto assieme. 

Rosa E viene carne bollita col pomodoro e la cipolla. La buonanima di mia madre diceva che per fare il ragù ci voleva la pazienza di Giobbe. Il sabato sera si metteva in cucina con la cucchiaia in mano, e non si muoveva da vicino alla casseruola nemmeno se l’uccidevano. Lei usava o il «tiano» di terracotta o la casseruola di rame. L’alluminio non esisteva proprio. Quando il sugo si era ristretto come diceva lei, toglieva dalla casseruola il pezzo di carne di «annecchia» e lo metteva in una sperlunga come si mette un neonato nella «connola», poi situava la cucchiaia di legno sulla casseruola, in modo che il coperchio rimaneva un poco sollevato, e allora se ne andava a letto, quando il sugo aveva peppiato per quattro o cinque ore. Ma il ragù della signora Piscopo andava per nominata.”

E allora torno in quella cucina, a quei sapori, e ai miei nonni, con il ragù come un’atipica Madeleine proustiana.



× Ciao!