30 Set LA CITTA’ E I CANI
Quando si pensa alla letteratura sudamericana generalmente vengono in mente temi come la nostalgia, i sentimenti, le saghe familiari, la magia e la sensualità: ebbene, nessuno di questi si trova ne “La città e i cani”, il primo romanzo scritto da Mario Vargas Llosa.
Il libro è ambientato a Lima nei primi anni ‘60 del secolo scorso e narra le vicissitudini di un gruppo di studenti di estrazione sociale differente che frequentano il rigidissimo collegio militare Leoncio Prado. Tra questi vale la pena ricordare il tenente Gamboa (uno degli ufficiali della scuola), il Giaguaro (leader violento e carismatico della camerata), il Boa (il suo fedele compagno), Ricardo Arana (chiamato lo schiavo) e soprattutto il poeta, vale a dire Alberto Fernandez, che altri non è che lo stesso autore.
Vargas Llosa fu infatti costretto dal padre a frequentare questa scuola con la speranza che i militari lo raddrizzassero, facendolo diventare un vero uomo e levandogli dalla testa una volta per tutte la letteratura. Queste sono le sue parole:
“Ero un bambino viziatissimo, presuntuosissimo, cresciuto, faccio per dire, come una bambina… Mio padre pensava che il Leoncio Prado avrebbe fatto di me un uomo, ma per me fu come scoprire l’inferno.”
La scuola si rivela infatti un luogo in cui i cadetti sono soggetti ad una disciplina durissima, a partecipare ad estenuanti esercitazioni, ma soprattutto è il luogo dove vige la legge del più forte: qui le vessazioni, i soprusi, le punizioni fisiche e le umiliazioni di ogni genere sono la quotidianità e sono più che tollerate da sorveglianti e superiori. A farne le spese sono ovviamente i ragazzi più deboli e i più indifesi, oltre a quelli che provenivano da realtà completamente diverse e non erano quindi abituati alla violenza spiccia e gratuita che si praticava nelle camerate.
Per l’autore, che apparteneva ad una famiglia della Lima benestante, cresciuto nella bambagia e con tutti i confort, fu un trauma tremendo, un’esperienza crudele e brutale che però per la prima volta lo mise di fronte alle varie anime del Perù. Il collegio era infatti frequentato da ragazzi che provenivano da diverse etnie e da diversi ceti sociali, ognuno con la sua storia, spesso di degrado e povertà; ragazzi che si portavano dietro un’etichetta impossibile da levare: l’integrazione all’interno della scuola non era una possibilità contemplata.
Il romanzo si svolge per lo più all’interno del Leoncio Prado ma i protagonisti sono seguiti anche nelle loro libere uscite e questo, insieme ai flashback presenti, aiuta il lettore a capire anche il contesto nel quale vivono i personaggi.
La città e i cani è stato scritto con una struttura innovativa per l’epoca: è un romanzo corale. Ci sono infatti più narratori che raccontano la loro storia, intrecciando vicende avvenute in tempi e luoghi diversi: questo all’inizio può disorientare il lettore, che però dopo poco si abituerà al ritmo e ai continui “salti”.
Le pagine dove vengono descritte le gelosie e i dispetti per il favore di una ragazza, quelle in cui si narrano i reati commessi in cambio di un piatto di minestra, quelle in cui il razzismo nei confronti degli indios e dei montanari è palpabile e per finire quelle in cui si evince l’eterna rivalità tra ricchi e poveri con le conseguenti disuguaglianze rendono questo romanzo decisamente attuale.
Quella che è descritta è la Lima degli anni Sessanta, ma a ben vedere non è dissimile da quello che accade nelle periferie di una qualunque grande città dei nostri giorni. La città e i cani è un libro brutale e impegnato, per certi versi malinconico e per altri feroce che consiglio vivamente.
Incipit:
“Quattro, – disse il Giaguaro.
Al chiarore incerto che il globo di luce diffondeva nel locale, attraverso le poche sfaccettature di vetro non ancora coperte di sudiciume, le espressioni dei visi si rilassarono: il pericolo era passato per tutti, salvo che per Porfirio Cava. I dadi erano immobili, bianchi contro il suolo sporco, e segnavano tre e uno.
Quattro, – ripeté il Giaguaro. – Chi è?
Io, – mormorò Cava. – Avevo detto quattro.
Muoviti, – replicò il Giaguaro. – Lo sai, la seconda a sinistra.
Cava rabbrividí. I gabinetti erano in fondo alla camerata, divisi da una sottile porta di legno, e non avevano finestre. Gli altri anni, l’inverno non si spingeva più in là del dormitorio dei cadetti, dove filtrava dai vetri rotti e dalle fessure; ma quell’anno si era fatto aggressivo e in quasi ogni angolo del collegio soffiava il vento che, di notte, riusciva a penetrare perfino nei gabinetti dove spazzava il fetore che si era accumulato durante il giorno e dissolveva l’atmosfera tiepida. Ma Cava, nato e cresciuto nella sierra, era abituato all’inverno: era stata la paura a farlo rabbrividire.”
(fonte immagine: sito web www.lastampa.it)
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https://www.acasadilucia.org/2024/07/24/35044/
https://www.acasadilucia.org/2024/06/23/intiraymi-una-festa-ritrovata/