A Casa di Lucia | IN RICORDO DI ITALO SVEVO
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IN RICORDO DI ITALO SVEVO

«Fuori della penna non c’è salvezza»

Il 13 settembre 1928 morì Italo Svevo, pseudonimo di Aron Hector Schmitz. La doppia ascendenza dello scrittore, italiana e tedesca, come ricorda lo pseudonimo da lui scelto, trova una perfetta corrispondenza nell’ambiente mitteleuropeo della città di Trieste, dove egli visse prevalentemente e dove avvenne la sua formazione. La città faceva parte ancora dell’impero austro-ungarico ed era soggetta alle diverse influenze religiose, etniche ecc. Lo scrittore apparteneva alla classe borghese imprenditoriale, in quegli anni attraversata da profonde trasformazioni.

Privo di una formazione umanistica, (in quanto, per volontà paterna, i suoi studi lo portarono ad approfondire materie tecniche commerciali), egli coltivò e costruì i suoi interessi letterari da autodidatta. Grazie alla conoscenza del tedesco e agli studi in Germania, Svevo si costruì una formazione ampia e varia, in cui confluirono spunti provenienti da correnti di pensiero fra loro diverse: al positivismo dell’evoluzionismo di Darwin e alla teoria marxista si affiancò il pensiero di Schopenhauer e Nietzsche, cui si unirà poi la riflessione sulle teorie freudiane. Svevo non aderì a nessuna di queste concezioni, ma da ciascuna ricavò elementi critici che sottopose a rielaborazione.

Nel 1880 entrò come impiegato nella filiale triestina di una banca viennese e da questa esperienza di lavoro trasse ispirazione per il suo primo romanzo Una vita, del 1892, ignorato dalla critica del tempo. Non diversa sorte toccò al secondo romanzo, Senilità, del 1898, accolto in maniera fredda da pubblico e critica. Deluso, rassegnato alla vita della grande borghesia affaristica, Svevo decise di abbandonare la letteratura, definendola «ridicola e dannosa». Non perse, però, la curiosità intellettuale: in quegli anni ebbe modo di conoscere James Joyce, suo insegnante d’inglese.

Solo dopo la fine della guerra, nel 1919, iniziò a scrivere La coscienza di Zeno, pubblicato nel 1923. Nel romanzo, Svevo riprende numerosi spunti dalle teorie freudiane, per giungere alla conclusione che la nevrosi non è condizione del tutto negativa, in quanto consente un’osservazione privilegiata della realtà. Svevo giunge a portare al centro della sua opera la figura dell’inetto, rivolto alla continua analisi della propria psiche e delle nevrosi di cui è vittima, ma al tempo stesso capace di comprendere a fondo la complessità del reale.

Ma ancora una volta dovette affrontare l’ennesima frustrazione e commentò che i suoi romanzi erano come «un pezzo d’aglio nella cucina di persone che non possono soffrirlo».

Fu James Joyce il primo ad apprezzare “Senilità” e a dare un giudizio critico perfettamente calzante su “La coscienza di Zeno”, e nel 1925, riconosciuto l’immenso valore dell’opera, fu lui a segnalare ai critici francesi Benjamin Crémieux e Valéry Larbaud “La coscienza di Zeno”. L’eco di questa segnalazione arrivò in Italia e spinse Eugenio Montale a chiedere una copia delle opere di Svevo, riconoscendone la grandezza e paragonando il protagonista Zeno a un moderno Ulisse. L’autore che si era sempre tenuto ai margini della vita letteraria poté finalmente vedere riconosciuto, almeno in parte, il proprio talento, poi rivalutato del tutto solo negli anni Sessanta, quando “La coscienza di Zeno” s’impose quale opera fondamentale della nostra letteratura.

Sei mesi prima di morire, a seguito di un incidente d’auto, Italo Svevo scrisse nella pagina iniziale di Confessioni del vegliardo, romanzo rimasto incompiuto: «L’unica parte importante della vita è il raccoglimento. Quando tutti lo comprenderanno con la chiarezza ch’io ho, tutti scriveranno. La vita sarà letteraturizzata. Metà dell’umanità sarà dedicata a leggere e studiare quello che l’altra metà avrà annotato. E il raccoglimento occuperà il massimo tempo che così sarà sottratto alla vita orrida vera».

Al di là della profetica riflessione, circa l’attuale proliferare di romanzieri dalla vena autobiografica, quanto Svevo voleva sottolineare era la necessità della letteratura quale strumento di analisi, conoscenza e comprensione di sé; per tornare a vivere il passato, dargli una nuova veste, riscoprire emozioni già trascorse, forse in una luce diversa. La letteratura si oppone quindi alla «vita orrida vera», che tutto ingloba nel suo essere arida, violenta, feroce, prosaica. Con Svevo la letteratura rinuncia alla sua funzione sociale di sublimazione e neutralizzazione dei conflitti per essere soltanto il canale attraverso il quale i conflitti si esprimono.



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