La vita del Buddha è innanzitutto una grande favola: la storia del principe bellissimo che il padre vuole tenere all’oscuro degli orrori dell’esistenza e invece accidentalmente li scopre. Quei mali sono la vecchiaia, la malattia, la morte: e anche nel mondo di sola bellezza e piacevolezza che il potente re ha approntato per il figlio essi filtrano, onnipresenti e fatali. Le gesta del Buddha raccontano l’itinerario del principe per giungere a trovare la risposta a quei mali: l’Illuminazione, da cui discenderà la dottrina della Liberazione dal ciclo delle nascite. Annunciato dalla figura di un maestoso elefante bianco che appare in sogno a sua madre e penetra senza dolore nel corpo di lei, il principe si presenta con queste parole: «Per conseguire l’Illuminazione io sono nato, per il bene delle creature; questa è la mia ultima esistenza nel mondo». Ma prima di conseguire l’Illuminazione, il Buddha dovrà vivere sino in fondo la sua favola: conoscerà la felicità di un’infanzia paradisiaca, il primo atroce sgomento dinanzi alla totalità della vita, le tentazioni ripetute, gli inganni e gli errori. Lo vedremo, bambino, giocare con «elefantini, cerbiatti e cavallucci d’oro» e con «bambole risplendenti d’oro e d’argento»; lo vedremo, giovinetto, «preda di femmine maestre di pratiche amorose e inesorabili nel piacere»; lo vedremo sconvolto dalla rivelazione della morte, riconoscere che «l’impermanenza pervade ogni cosa»; poi, nella foresta, affidarsi «al sentiero della quiete della mente»; poi rispondere al padre, che vuole trattenerlo dal farsi monaco errante, «non è giusto fermare uno che vuole uscire da una casa arsa da un incendio»; e poi fuggire a cavallo, ruggendo: «Io non farò ritorno nella città che ha nome da Kapila senza aver visto l’altra sponda della vita e della morte»; e poi riconoscere nell’ascesi una nuova forma dell’inganno, in quanto via verso il paradiso, ma non verso la Liberazione… Alla fine di queste «gesta», che si arrestano sulla soglia dell’Illuminazione, ci accorgeremo di esser stati introdotti al Buddha nel modo più dolce, suadente, sontuosamente romanzesco, da un alto maestro della parola, quell’Asvaghosa sapiente artista di Corte che Coomaraswamy ha definito «il più grande poeta del buddhismo». Nel settimo secolo dopo Cristo, cioè circa sei secoli dopo la composizione delle Gesta del Buddha, un pellegrino cinese, I-tsing, scriveva che Asvaghosa era letto «per ogni dove nelle cinque Indie e nei paesi dei mari del Sud». Oggi come allora, Le gesta del Buddha ci avviluppa nella lettura col suo immenso e intatto fascino, anche se – come Asvaghosa ricordò alla fine di un altro suo testo – l’opera è stata composta «non al fine di dare piacere, ma al fine di dare la pace». La presente edizione, a cura di Alessandro Passi, è la prima che si tenta in Italia dopo quella pubblicata all’inizio del Novecento, e oggi evidentemente datata, di Carlo Formichi. La traduzione è accompagnata da un saggio sul Buddhacarita e il suo autore, che ricostruisce la genesi, l’ambiente e la fortuna del testo, e da un ricco glossario mitologico-storico-religioso.