A Casa di Lucia | HO DORMITO IN UNA TORRE
36486
post-template-default,single,single-post,postid-36486,single-format-standard,theme-bridge,bridge-core-1.0.2,no-js,woocommerce-no-js,ajax_fade,page_not_loaded,,vertical_menu_enabled,qode-title-hidden,side_area_uncovered_from_content,transparent_content,columns-4,qode-theme-ver-18.0.4,qode-theme-bridge,disabled_footer_top,wpb-js-composer js-comp-ver-5.7,vc_responsive

HO DORMITO IN UNA TORRE

Guardo dall’alto la vallata che si spinge fino all’inizio del bosco. Sono seduta su una delle due sedie a sdraio di legno. Quella accanto a me è vuota, eppure provo un senso di completezza che non lascia spazio ad alcuna malinconia. Sorseggio il Gewürztraminer che mi sono portata da casa insieme al calice per celebrare questo fine settimana dedicato solo a me. Di fronte a me la vallata si colora del giallo intenso tipico dell’ora del tramonto. Di tanto in tanto chiudo gli occhi per sentire sulla pelle il vento amplificato dal respiro lento. Sono qui. Finalmente. Nella Torre di Gombola il tempo si è fermato al XV secolo e non è solo un modo di dire. Qui, infatti, non ci sono corrente elettrica, bagno e acqua corrente: quattro piani collegati da ripide scale di legno e nessuna comodità di quelle a cui oggi siamo così abituati da non riuscire neppure a immaginare che non ci siano. 

Non ci ho messo molto a decidere di venire qui, e di farlo da sola. Volevo portarmi via per qualche giorno, parlarmi, ascoltarmi, sentirmi. Così ho prenotato il mio piccolo viaggio nel tempo. Ed ora sono qui, un po’ infreddolita. Una giornata grigia e afosa sta lasciando il posto a un cielo limpido che promette una notte stellata e il tramonto è tutto ciò di cui ho bisogno. Mi giro e guardo, dal basso verso l’alto: quella che sarà la mia casa per due notti. “Dormirò lassù”, penso mentre guardo la piccola finestra dell’ultimo piano, anticamente la colombaia. Capisco perché lassù vivevano gli uccelli: salire le ripide scale di legno non è la cosa più agevole per chi non ha ali e deve tenere una candela in mano. Salirò tra poco, quando l’ultima luce sarà scesa oltre la collina e le prime stelle inizieranno a brillare, ma per ora mi godo l’ultimo sorso di vino fresco e profumato e ascolto il ronzio degli insetti che si posano sulla lavanda, mentre i cinghiali, in lontananza, salutano la sera.  Questo vento pulisce i pensieri e sento di essere nel posto giusto. Un brivido più forte mi fa decidere ad entrare. Chiudo il portone della torre, accendo la candela e salgo lentamente. Supero il piano del salotto con l’antica stufa a legna, quello con il grande tavolo di legno e gli scacchi. Penso che sarebbe divertente fare una partita, ma questa è una delle poche cose che non posso fare da sola. Sorrido mentre salgo l’ultima scala fino ad arrivare in camera. Apro il lucernario e guardo le stelle che iniziano a brillare nonostante il cielo non sia ancora completamente buio. Faccio un respiro profondo pieno di gratitudine e chiudo gli occhi. Mi ritrovo a migliaia di chilometri di distanza: sono in Namibia. Lì il cielo, di notte, è qualcosa di incredibile: la Via Lattea sembra così vicina da convincerti che sia possibile toccarla con un salto ben fatto e le braccia alzate. Sono nel campo tendato di Spitzkoppe. La stanza è una tenda sopraelevata (per scoraggiare gli animali dall’entrare), il pavimento di legno scricchiola, ma il letto è comodo e le lenzuola profumano di bucato. Una piccola porta di legno conduce al bagno che, in realtà, è uno spazio avvolto da assi di legno e ha per soffitto, appunto, quel pazzesco cielo che ospita una quantità infinita di stelle. Con la testa in su valuto seriamente l’idea di  portare il materasso lì e addormentarmi così, esprimendo un desiderio dopo l’altro. 

Entro, invece, e mentre ancora fatico a credere di essere davvero in un posto così, mi ricordo di quella sera, in Iran, in un caravanserraglio nel deserto vicino a Yazd, guardavo il tramonto mentre bevevo una tazza di tè speziato. La mia guida, improvvisamente, tirò fuori un’armonica a bocca e iniziò a suonare una melodia triste. Non potrò mai dimenticare quella serata. Un altro di quei momenti perfetti che, nella mia vita, quasi sempre sono legati a un viaggio. Anche se poi il sottile materasso in terra si rivelò un po’ duro e il sonno si interrompeva a ogni movimento, non avrei voluto essere in nessun altro posto. 

Se in Iran dormire in terra è stata un’esperienza che non definirei proprio riposante, a vincere il premio di notte più difficile delle mie esperienze in giro per il mondo, è certamente quella trascorsa in tenda a poche decine di chilometri da casa, quando ho bivaccato in canadese al Lago Scaffaiolo, in provincia di Modena. L’umidità del 100%, il freddo, la tenda montata su un pendio che, stando in piedi sembrava trascurabile, ma durante la notte si rivelò una ripida discesa, mi hanno fatto ricordare ogni singolo minuto di quella notte. Ricordo la meravigliosa alba, che attesi con pazienza dopo essere scappata dalla tenda appena l’orologio mi confermò che era ufficialmente mattina. Mentre il sole saliva dietro le montagne, vincendo la nebbia bassa e illuminando il lago, mi sono promessa che non avrei ripetuto l’esperienza senza un buon materasso gonfiabile. 

Restando sul dormire in terra, non posso dimenticare la mia notte in grotta a Petra. Nonostante la nostra guida avesse insistito per farci cambiare la prenotazione, visto che in Gennaio è molto freddo e il campo era senza riscaldamento, sono grata alla mia ostinazione nel restare fedele alla scelta. Ammetto che non me la sono sentita di fare la doccia con l’acqua ghiacciata e di essermi lavata alla velocità della luce, ancora traumatizzata dalla doccia all’aperto sul Mar Morto mentre iniziava una tempesta (ma questa è un’altra storia), ma la stanza grotta ci ha regalato una notte calda e riposante. Ogni materasso era fornito di coperte così kitsch da sembrare quasi belle e così calde da non fare rimpiangere il riscaldamento. Qualche notte dopo avrei dormito in un campo tendato nel deserto del Wadi Rum, un’altra esperienza indimenticabile. Dopo una favolosa cena beduina cucinata sotto la sabbia e dopo aver ballato tutta la sera, al rientro nella tenda, con letti comodissimi e anche una preziosa stufa, abbiamo però fatto i conti con la scarsa protezione data dalle finestre di plastica che avevano lasciato entrare la sabbia portata da un forte vento. I letti completamente coperti di granelli dorati sono stati una sorpresa non gradevole ma divertente: è stato sufficiente spostare i letti al centro e lasciare spazio al sonno, mentre le immagini di quella incredibile giornata ancora scorrevano vivide. 

Ritorno qui, nella colombaia della torre di Gombola. Il silenzio è così intenso da penetrare le ossa. In pochi secondi sono stata in Africa, in Asia, sull’Appennino modenese. Ho dormito in terra, all’aperto, in un monastero ai piedi dell’Himalaya, al trentesimo piano di un grattacielo di Manhattan, in un riad a Marrakech meraviglioso ma dove il bagno non aveva la porta. Ho dormito da sola e con decine di persone, insieme alle formiche di Amman e agli scarafaggi indonesiani e vietnamiti. Ho dormito in stanze favolose e in bettole sporche. Ho dormito in luoghi con ogni comfort e in luoghi senza corrente elettrica, come ora. E mentre spengo la candela che ho posato sul comodino, provo un grande senso di libertà, quella libertà che si prova quando ci si lascia sorprendere dall’inaspettato, dalla scomodità che attiva parti di noi sconosciute. E dalla gratitudine per tutti i letti, i prati, i pavimenti sopra i quali ho dormito. Per quell’armonica, per l’acqua gelata, le coperte calde, il cielo stellato, la via lattea. Mi addormento così, pensando che tornerò qui, da sola, dormirò nella colombaia ma mi sentirò la signora della torre. 



× Ciao!