A Casa di Lucia | IPAZIA: l’ultima luce di Alessandria
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IPAZIA: l’ultima luce di Alessandria

Alessandria d’Egitto, 412 d.C. È una mattina di fine inverno. Le strade di Alessandria d’Egitto sono un mosaico di lingue e costumi: greco, copto, latino, ebraico, egiziano. Mercanti provenienti da Roma, Bisanzio, l’India e l’Etiopia affollano il porto, carichi di merci preziose: rotoli di papiro, spezie, stoffe colorate, amuleti sacri. Il mar Mediterraneo manda l’odore salmastro del vento, mescolato al profumo dell’incenso bruciato nei templi e delle erbe officinali vendute dagli speziali.

Ipazia cammina fiera tra le strade della città. Indossa il chitone bianco, l’abito dei filosofi, cammina a passo deciso verso la scuola platonica. I sandali sfiorano il suolo di pietra, mentre le colonne dei portici proiettano lunghe ombre sulle strade assolate. Il suo carisma si può quasi toccare. Ipazia è una delle personalità più influenti in città e non solo,  dirige la scuola neoplatonica e ha un vasto seguito di allievi e sostenitori, tra cui importanti funzionari dell’amministrazione romana. 

Gli uomini si fermano a guardarla, molti con ammirazione e interesse, qualcuno con diffidenza e sospetto: una donna che insegna agli uomini? Una donna che parla di matematica, di stelle, di filosofia? Per alcuni è un prodigio, per altri un’anomalia, un’eresia vivente. Ma a Ipazia non importa. Per lei il sapere viene prima di ogni giudizio, di ogni diffidenza e di ogni convenzione. 

Dietro di lei, alcuni giovani allievi la seguono sperando di riuscire a seguire la sua lezione di oggi. Uno di loro, forse un novizio della scuola, le si avvicina con esitazione: “Maestra, com’è possibile che la Terra sia un punto insignificante nel cosmo?” Ipazia sorride appena, sollevando lo sguardo al cielo limpido sopra di loro. “Non è la grandezza che conta, ma l’armonia. La verità non ha bisogno di essere al centro dell’universo per esistere.” Un altro allievo, più audace, chiede: “Dicono che la filosofia sia un gioco di parole, che non serva a nulla. Come può il pensiero mutare il mondo?”

Ipazia si ferma un istante, osservando il fermento del mercato, il via vai di mercanti e scribi. Poi risponde con voce chiara: “Guardati attorno: ogni ponte, ogni nave, ogni meridiana è frutto della matematica. Ogni legge, ogni decisione politica nasce da un pensiero. È il pensiero a modellare la realtà, sempre.”

Mentre prosegue il suo cammino, un uomo più anziano la osserva in silenzio. È un commerciante, forse un simpatizzante del vescovo Cirillo. Mormora tra sé e sé, con un sorriso appena accennato:

Troppo sapiente per essere solo una donna. Troppo libera per non essere pericolosa.”

Mentre Ipazia cammina spedita e fiera, un’ombra si staglia sul cielo sopra la scuola e la sua vita. All’inizio è leggera, impercettibile, ma inesorabile. Ipazia non se ne accorge mentre parla con gli studenti, mentre svolge i rotoli della grande biblioteca e riflette sull’universo, ma l’ombra si fa sempre più cupa sopra di lei e sopra il suo sapere. 

In città ci sono tensioni. La convivenza tra pagani, cristiani ed ebrei si è fatta fragile, e nelle strade si verificano scontri sempre più spesso. L’Impero Romano d’Oriente ha abbracciato il cristianesimo come religione ufficiale, e le antiche scuole filosofiche pagane sono considerate sempre più sospette.

Proprio nel 412 d.C. il patriarcato di Alessandria passa nelle mani di Cirillo, un uomo ambizioso e determinato a rafforzare il potere della Chiesa cristiana. La città, già segnata da scontri tra pagani, ebrei e cristiani, diventa ancora più instabile.

Il principale avversario politico di Cirillo è Oreste, il prefetto romano d’Egitto, rappresentante dell’imperatore. Oreste è un uomo colto e vicino alla élite intellettuale della città, e tra i suoi consiglieri c’è proprio Ipazia, la cui scuola neoplatonica continua ad attrarre studenti di alto rango.

Le tensioni esplodono nel 414 d.C., quando Cirillo ordina l’espulsione violenta della comunità ebraica, accusata di aver teso imboscate ai cristiani. Oreste condanna pubblicamente l’atto, vedendo in questa mossa un pericoloso abuso di potere da parte della Chiesa. Questo scontro tra le due autorità – politica e religiosa – accende il fuoco del fanatismo. In questo clima infuocato, Ipazia diventa un simbolo scomodo, per la sua vicinanza ad Oreste che, si vocifera, proprio lei influenza contro Cirillo. 

Ma la filosofa non è percepita come un pericolo solo per le sue presunte attività politiche. C’è molto di più nell’odio che si sta formando intorno a lei. Ipazia è una donna di potere e conoscenza, insegna pubblicamente, discute di scienza e filosofia, guida uomini nel sapere. Per molti cristiani integralisti, il suo ruolo è una sfida inaccettabile all’ordine sociale e religioso: una donna che si appropria dei ruoli maschili può portare solo allo stravolgimento di una società nella quale è l’uomo ad avere il monopolio del sapere. 

Infine Ipazia è pagana. Anche se non si oppone apertamente al cristianesimo, rappresenta la tradizione filosofica antica, che Cirillo vuole eliminare per affermare il primato della Chiesa.

Le dicerie si fanno più pericolose. Si mormora che Ipazia pratichi magia oscura, che impedisca la riconciliazione tra Oreste e Cirillo, che le sue conoscenze siano blasfeme. 

E così si arriva a quella giornata di marzo del 415 d. C. , uno dei giorni più oscuri della storia antica. 

Un gruppo di fanatici cristiani, guidato da monaci parabolani – una sorta di milizia religiosa vicina a Cirillo – la assale mentre, come ogni giorno, sta camminando verso la sua scuola. 

Il cielo sempre azzurro, l’aria frizzante le muove i lunghi capelli scuri. Ipazia sta parlando con un suo studente, il sorriso è aperto e gli occhi profondi come sempre, nonostante un velo di preoccupazione li renda meno limpidi. Improvvisamente un brivido la percorre, un senso di pericolo imminente la obbliga a fermarsi. Non fa in tempo a trasformare questa sensazione in un pensiero. Viene trascinata in una chiesa. Spogliata. Percossa. Privata, insieme agli abiti della sua dignità e autorità. Il suo corpo viene straziato con schegge di cocci affilati. La sua agonia è lenta, crudele, simile a un sacrificio rituale sull’altare del fanatismo. 

Non basta ucciderla. Gli assassini sanno che Ipazia non può semplicemente morire. Il suo corpo viene smembrato, in una volontà folle di annientarla completamente, di cancellare ogni traccia della sua esistenza. I suoi resti, infine, vengono bruciati, forse nel Cinaron, un luogo utilizzato per incenerire i criminali, a definitiva onta della sua memoria. L’omicidio di Ipazia non è solo l’uccisione di una donna, ma un atto simbolico. La filosofa rappresenta un mondo, quello greco e pagano, che sta e deve scomparire. La sua morte sancisce la fine di un’epoca.  

Ma rappresenta anche il potere femminile, la libertà, l’ostinazione di seguire il proprio daimon a dispetto delle convenzioni che vogliono le donne relegate in casa. 

Dopo la sua morte, Oreste perde potere e Cirillo rafforza la sua autorità. Alessandria diventa sempre più il cuore del cristianesimo ortodosso, mentre il pensiero neoplatonico e la cultura classica vengono progressivamente emarginati.

Con Ipazia muore un mondo nel quale la libertà di pensiero, la filosofia aperta a tutti, la conoscenza come via di emancipazione non hanno più spazio. 

Cirillo non sarà mai condannato per questo crimine. Tuttavia, la morte di Ipazia resterà uno dei momenti più oscuri della storia della conoscenza, il punto di svolta in cui Alessandria smette di essere la città del sapere per diventare il teatro della repressione.

Quello che Cirillo e i suoi seguaci non potevano immaginare, in quel buio giorno di marzo del 415 d.C., era che con il loro gesto avrebbero reso Ipazia immortale. Volevano farne il simbolo di un mondo finito e ne hanno fatto, al contrario, un simbolo di libertà, indipendenza, coraggio che, quasi 2000 anni dopo, ispira donne e uomini che credono nei valori che gli assassini pensavano di avere bruciato insieme al corpo di Ipazia. 

E invece eccola, la filosofa che cammina fiera tra le strade della città. Indossa il chitone bianco, l’abito dei filosofi, cammina a passo deciso verso la scuola platonica. I sandali sfiorano il suolo di pietra, mentre le colonne dei portici proiettano lunghe ombre sulle strade assolate. 

Riesco a vederla, i lunghi capelli al vento, lo sguardo fiero e penetrante, giudizio scolpito nei secoli contro la brutalità dell’ignoranza e dell’oscurantismo. 

Posso anche sentire il suo pensiero mentre, ora davvero libera, guarda dall’alto il suo mondo finire e lasciare, però, un seme profondamente piantato nel terreno. 

Ecco come la raccontano Adriano Petta e Antonino Colavito nel loro bellissimo libro Ipazia vita e sogni di una scienziata del IV secolo (ed. La Lepre). Ecco come mi piace immaginarla, ogni volta che penso a lei e da lei mi lascio ispirare, ricordandomi che essere una donna libera e controcorrente è una responsabilità che tutte noi abbiamo, perché il nostro mondo sia un posto più bello nel quale vivere. 

“Adesso corro terre e oceani, la tagliente luce del sole non navera la tenebra che avvolge la mia mente come nero sudario, il tempo è una strada infinita, che porta lontano, a un mondo impossibile. Dove sei, mio sogno perduto, forse un giorno tra infiniti altri, sentirai uno stanco passo sulla polvere arida di un sentiero nascosto. Chiama, che il nome mio risuoni una volta nel silenzio che tutto invade, o voce mia, afferra il suono e rimanda l’eco a lei, al suo corpo mio da sempre, allo sguardo velato da lunghi capelli, allo spolverio d’oro che ammanta le bianche e sensuali membra, di atomi, materia, forza, fuoco, freddo, vulcanica voluttà da sterminati universi. Fermati allora, e parlami del cielo e delle stelle, fa che la polvere si levi verso l’alto, che il mio cuore riprenda a pulsare, che il mio corpo diventi luce. L’attesa è infinita, ma io sono in cammino”. 

(tratto da “Ipazia vita e sogni di una scienziata del IV secolo” di Adriano Petta e Antonino Colavito)



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