09 Gen RACCONTO DI SCENA: MARCO GHIDELLI
Marco Ghidelli si specializza nella fotografia di scena, documenta il lavoro delle più importanti realtà̀ produttive teatrali e cinematografiche italiane. Ha collaborato per circa 20 anni con il Teatro Nazionale di Napoli. Negli ultimi anni incontra il cinema e la serialità̀, documenta per Sky Italia “Gomorra, la serie”, per Amazon “Citadel:Diana”, per Netflix “ACAB”.
Pubblica nel 2024 “Caracas”, il libro di fotografie scattate sul set dell’omonimo film di Marco D’Amore ispirato al romanzo “Napoli Ferrovia” di Ermanno Rea.
In questi mesi è impegnato con il progetto Diffrazioni in collaborazione con Aartproject29, un laboratorio sulla fotografia che vedrà̀ nascere nuovi lavori fotografici di giovani talenti del territorio.
LA FOTOGRAFIA DI SCENA
La fotografia di scena porta il fotografo a confrontarsi con la visione, il pensiero, le idee, le luci, le nevrosi del regista, dell’attore e del testo e in ultimo con la macchina tecnica, fondamenta alle volte esplicita altre nascosta della costruzione teatrale o cinematografica.
L’incontro, spesso anche lo scontro, tra la visione del fotografo e quella della mise en scene danno vita ad un nuovo racconto che passa per immagini. La fotografia così crea un nuovo, ma necessariamente aderente, immaginario dello spettacolo o del film che ha due ambizioni: quella di ammaliare lo spettatore e di incuriosirlo, così da portarlo nella buia dimensione del teatro o nel mondo bidimensionale del racconto cinematografico. Non solo proviamo, noi fotografi di scena, a creare immagini iconiche (Pasolini con gli occhiali da sole a spiare nel mirino della macchina da presa), ma abbiamo anche l’onere e l’onore di documentare il lavoro (spesso sottovalutato) della macchina produttiva che si muove dietro le luci della ribalta di un attore o una scena.
Nel mio lavoro da fotografo ho ricercato, più che l’estetica dell’immagine, il senso e le emozioni che poteva veicolare la stessa. Usando il linguaggio del mezzo fotografico nel tempo ho scoperto che aderiva pienamente al racconto teatrale. Le fotografie nascono da relazioni (soggetto, fotografo, spettatore) e il teatro si fonda sulla relazione, l’attore quasi sempre reagisce ad un’azione, causa ed effetto sono il motore di molta ricerca teatrale e nel teatro la codifica e la ricerca del gesto necessario sono fondamentali. Per questo nella mia fotografia teatrale, negli anni, con ossessione quasi maniacale, ho provato a gestire e rileggere il gesto dell’attore. Mi è sempre interessato l’attimo appena prima e quello appena dopo il compimento pieno del gesto. Così, penso, si lascia spazio al sogno, altro fondamentale ingrediente che può maneggiare un fotografo: cosa è accaduto o cosa accadrà non sta a me deciderlo, ma a chi guarda le mie foto, insomma reinventarsi una storia, un’emozione, un cortocircuito tra il reale e il proprio immaginario.
Al cinema e in televisione la mia fotografia ha dovuto sottostare a parametri più precisi. Il fotografo di scena ha l’esigenza di riprodurre immagini molto simili (il più possibile) all’inquadratura scelta dal regista, il direttore della fotografia e l’operatore di macchina. Il lavoro è, rispetto a quello teatrale, più nevrotico e la fotografia spesso va rubata in modo da non essere di intralcio al lavoro frenetico del set. La composizione, il colore, i toni della fotografia devono essere simili al girato e le immagini servono a creare tutto il materiale pubblicitario che andrà ad alimentare più che altro i social e i portali dei vari network. Naturalmente, anche se apparentemente le scelte sembrano molto meno libere per un fotografo, il proprio punto di vista e la sintesi tra l’immagine del regista e il proprio immaginario hanno un enorme valore. Le immagini diventano così (rivolgendosi ad un pubblico molto più ampio) pop e il confronto con il proprio lavoro è estremamente appagante. Resta anche sul set il lavoro di backstage: il fotografo documenta il rapporto degli attori e del regista dietro la cinepresa e la grande macchina produttiva che si muove in ambienti stravolgendo spesso la quotidianità dei locali.
La fotografia mi ha permesso di immergermi pienamente in mondi distanti dal mio e negli anni l’amore per le zone nere del teatro (il fotografo di scena lavora nel buio della platea durante le prove) mi ha fatto amare profondamente il rito del teatro stesso. La fotografia, ne sono quasi certo, funziona quando il soggetto dei tuoi scatti lo conosci, lo curi e lo ami, quando è o diventa parte della tua vita. Nel teatro ho trovato quei riti che la precarietà del mio lavoro mi toglie quotidianamente.
A cosa servono le fotografie? A far conoscere ciò che non si conosce e nel mio campo ad emozionare, ad evocare sentimenti e visioni in una frazione velocissima rubata ai milioni di scatti che ormai siamo abituati a vedere ogni giorno in modo del tutto casuale e superficiale. Il fotografo deve provarci, nonostante tutto rimanere concentrato e avere sempre una idea precisa della propria fotografia. La macchina fotografica è un mezzo che ti costringe ad avere una visione personale sulla realtà; questo rende la fotografia uno strumento politico, nell’eccezione alta e ormai poco praticata del termine. Anche se scatto foto di scena, la mia fotografia è politica come quella di qualsiasi fotografo: Crea realtà e mondi.
I MAESTRI
Sono abituato ad osservare e questa attitudine mi ha portato a saccheggiare e tradire grandi nomi della fotografia, fotografi, registi, amici, giovani talenti e fotografie completamente nate dal caso. I maestri sono così tanti che sicuramente nessuno può definirsi propriamente tale. Questa consapevolezza mi porta nel mio lavoro ad avere sempre bisogno di nuovi stimoli e di considerare i risultati ottenuti sempre punti dai quali partire. Alcune persone, però, sono state fondamentali per il mio percorso.
Pino Mannara, fotografo campano/pugliese, il primo che mi ha dato una macchina fotografica (una reflex a pellicola) in mano e mi ha fatto capire le differenze tecniche tra le varie macchine fotografiche e soprattutto mi ha suggerito di trattare la fotografia come la scrittura: avere lo stesso pudore nei confronti delle immagini come si ha nei confronti delle proprie opere giovanili; far vedere agli altri così come far leggere agli altri solo quello che si ritiene realmente necessario.
Nunzio Mari, fotografo casertano, reporter sensibile e amico sempre a mille. Con lui la fotografia è diventata il mio mestiere e insieme abbiamo affrontato la più grande palestra che in Campania esiste per un fotografo: le madri assatanate delle spose. Nunzio, fino alla sua prematura morte, è stato il mio punto di riferimento di ogni singolo scatto. Qualsiasi foto passava al vaglio e veniva sviscerata e criticata da lui. Devo la mia formazione e la voglia di emulare i grandi nomi americani, giapponesi, europei della fotografia a Nunzio.
A teatro un uomo riservato e talentuoso, Cesare Accetta, mi ha portato per mano nel mondo dei neri, del taglio di luce e con lui ho vissuto gli anni del teatro napoletano e imparato a vedere dove gli altri faticavano avvolti dal cupo della scena.
Potrei e dovrei nominarne tanti altri; un fotografo è un vampiro. Poi, però, bisogna provare a tradirli e fortunatamente li ho traditi tutti. Pino e Nunzio forse non lo sapranno mai, ma quanta forza negli anni mi ha dato la voglia di superarli, tradirli e costruire la mia fotografia.
GLI INIZI
Da poco è passato il 2024, sono 20 anni, ormai, che scatto fotografie di scena. Ne avevo 23 quando Mario Martone vide le mie foto del suo spettacolo. Era la mia prima volta a teatro come fotografo, avevo una delle prime macchine fotografiche digitali, complessa da usare in contesti di scarsa luce. Mi ricordo la confusione di quei momenti e poi la decisione di scattare senza vincoli, in realtà̀ non ne avevo semplicemente perché non avevo idea di quali fotografie potessero servire a documentare uno spettacolo. Martone, inaspettatamente, apprezzò quegli scatti (ora mi sembrano ingenui e tecnicamente sbagliati), cambiò dall’oggi al domani tutta la comunicazione del suo spettacolo e improvvisamente le mie foto per la prima volta erano viste da troppi occhi. La grande disponibilità dell’allora direttore dello Stabile, Ninni Cutaia, mi fece diventare giovanissimo il fotografo di scena di uno dei più importanti teatri di produzione d’Italia. Negli anni quel teatro è diventato la mia casa e la fotografia di scena il mio lavoro.
Se vado ancora più indietro nel tempo, ricordo un commento di un contadino di Caiazzo. Avevo seguito il loro lavoro per alcuni mesi e dei miei amici mi diedero la possibilità di mostrare il mio portfolio agli stessi abitanti in una piccola corte privata. Allora la mia fotografia si alimentava principalmente di cinema e il primissimo piano era una tecnica del ritratto che mi affascinava tantissimo. Nei miei scatti tagliai nettamente le teste di tutti quei lavoratori: “chist m‘ha tagliat a capa!”. Questa freddura involontaria ma onesta e inconfutabile mi fece capire che della fotografia amavo anche la possibilità di prendermi cura dei miei soggetti. Qualcuno potrebbe dire che ho ceduto ad un compromesso, io penso, invece, che proprio nell’equilibrio tra la propria idea compositiva e la restituzione allo spettatore dell’immagine possa nascere una buona fotografia. Non ho più tagliato teste, ma ho portato avanti altre ossessioni nelle mie foto.
A.I. NUOVI FOTOGRAFI
La precarietà del futuro e la velocità con la quale il mezzo fotografico si è evoluto negli ultimi anni instaura un senso di scoramento nelle nuove leve della fotografia. Dalla mia esperienza di insegnamento all’Accademia di Napoli ho scoperto che i nuovi fotografi hanno per lo più paura di cosa possa accadere. L’IA apre altre infinite possibilità̀ di cambiamento, ma la riflessione resta solo sul piano pratico delle possibilità̀ di lavoro che potrebbe sbriciolare o costruire. Come può un fotografo produrre la sua immagine partendo da questi presupposti? Non so cosa accadrà nel mondo, sono consapevole che sia di una complessità disarmante e i riferimenti della mia generazione, quelli del Novecento, sono stati completamente spazzati via nel giro di un ventennio, ma sono certo che la fotografia possa continuare a raccontare e reinventare il reale. Un fotografo deve essere curioso, deve analizzare e informarsi, deve restare una sentinella sempre attenta a quello che accade e non può reagire al cambiamento chiudendosi nella paura. La fotografia ha bisogno di grandi racconti ha bisogno di visioni nuove e emozionanti, ha bisogno di giovani che sappiano camminare nel buio e inventarsi strade mai percorse. Non ritrovarsi è il prezzo di questo mestiere e forse dei tanti mestieri che ci riserverà̀ il futuro.
IL LIBRO
“Il Dono Oscuro” di John Martin Hull, teologo australiano: il suo diario, che racconta il percorso tortuoso e difficile nell’affrontare una malattia degenerativa che lo porterà a perdere completamente la vista. Come può essere immediatamente comprensibile, è un libro che affronta la paura più grande per chi lavora con le immagini: quella di non riuscire più̀ a vedere. La lettura del libro ha in qualche modo esorcizzato la mia paura. Molti passi del libro aprono anche ad una riflessione sul senso e sul metodo stesso di essere e fare fotografia. In un passo John Martin Hull racconta di come riesca a percepire gli spazi avendo ormai abbandonato la vista ma utilizzando gli altri sensi. Il suono, il ticchettio delle gocce di pioggia sul tetto della sua casa, ricostruisce la tridimensionalità dello spazio e lo stesso spazio esiste solo quando il teologo lo può percepire con uno dei sensi. In fisica quantistica determiniamo il percorso di una particella solo quando lo osserviamo. Ecco il mio approccio alla fotografia. Il rettangolo nero viene colpito dalla luce e proprio la luce costruisce la realtà stessa di quel frame. Insomma osservo dal mirino e costruisco una nuova realtà, che necessariamente dipende dal mio esserci. Le mie fotografie nascono e ritornano nel buio e quando scatto non faccio altro che incontrare uno degli infiniti percorsi della luce o dei miei soggetti. Il trucco dove sta? Credere che sia l’unica possibilità, la sola fotografia possibile. La stanza appare a John Martin Hull solo se piove; la fotografia solo se un uomo decide dove puntare l’obiettivo e un altro uomo decide di crederci.
Ringraziamo Marco Ghidelli per la disponibilità e la gentile concessione delle foto:
- Marco D’Amore – L’Immortale
- Marco D’Amore e Lina Camelia Lumbroso – Caracas
- Massimiliano Gallo – Questi Fantasmi
- Toni Servillo – Le Voci di Dentro
- Marco Ghidelli