A Casa di Lucia | “Il giovane Holden” di Salinger: specchio immutato di una gioventù in crisi
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“Il giovane Holden” di Salinger: specchio immutato di una gioventù in crisi

Scrivere di questo romanzo mi sembrava superfluo: è talmente noto e talmente letto, che sarà stato detto ormai tutto, ho pensato una volta chiuso. Ma, riflettendoci bene, mi sono resa conto che invece non leggo quasi mai recensioni su “Il giovane Holden” e forse parlarne non è poi un “di più” di cui poter fare a meno. Perché se è vero che questo romanzo è stato tanto letto e si è tanto discusso su di esso, è anche vero che spesso è una lettura giovanile e molto cambia di un testo in base alla fase della vita in cui ci si approccia.

Holden Caulfield è fondamentalmente un pischello, borioso, attaccabrighe, fastidioso, con un linguaggio pieno di inutili intercalare e un atteggiamento che tante volte ti farebbe chiudere il libro per non doverlo sopportare oltre. Perché io, Holden, lo sto conoscendo adesso, a oltre 40 anni, quando quell’età è ormai lontana dal mio sentire, quando da essa ho il distacco da adulto e genitore che me la fa affrontare come la sfida che naturalmente si frappone quando in mezzo c’è un tale gap generazionale. Lo leggevo e ne ero francamente infastidita e stavo lì a chiedere alla mia amica che me lo aveva caldamente consigliato perché mi avesse sottoposta ad un simile supplizio.

Perché ti infastidisce?“, mi ha chiesto.

Perché è come i tutti i ragazzi con cui ho a che fare ogni giorno e me lo risparmierei quando posso rilassarmi!“, ho risposto.

E la mia risposta è stata LA risposta. Perché lo scrittore, invece, non era un ragazzetto di 17 anni. Eppure è riuscito a renderlo vivo, reale: io stavo leggendo Holden, non Salinger. Ecco la grandezza. E dall’esterno, senza volerlo, Holden mostra le sue fragilità in piccole grandi epifanie: il raggio di sole che si apre nel suo monologo quando parla di Allie (il fratellino più piccolo di due anni, morto di leucemia ad 11 anni) ma soprattutto della sorellina Phoebe, il suo appiglio contro le brutture del mondo. Un mondo in cui non riesce ad integrarsi, in cui vede il marciume come attraverso un filtro: la sporcizia dell’atleta figo e palestrato, la fragilità del vicino di stanza appiccicoso, il tornaconto dell’insegnante così prodigo, il vuoto interiore della bella ragazza mondana. Gli unici rapporti che si salvano sono quelli con Jane (che non comparirà mai nel presente della narrazione ma solo nei suoi ricordi), con il fratello prematuramente scomparso Allie, e con la sorella minore Phoebe, di 10 anni. Ed è amaro constatare come questo fratello non più in vita sia più presente per Holden dell’altro fratello, il maggiore, D.B., che vive e lavora a Hollywood come soggettista. E fa sorridere che lui, il giovane Holden, si rivolga alla sorella definendola sempre la “grande Phoebe“, come se fosse lei l’unica vera adulta a guidarlo e lui il bambino perso.

In mezzo a tutto il caos di una vita allo sbando e di una New York dispersiva e inospitale ecco lui, Holden, circondato da un denso alone di solitudine. Lui che viene cacciato da scuola ma che ha la passione per i bei romanzi.

 

“Quelli che mi lasciano proprio senza fiato sono i libri che quando li hai finiti di leggere e tutto quel che segue vorresti che l’autore fosse un tuo amico per la pelle e poterlo chiamare al telefono tutte le volte che ti gira.”

 

Lui che, perso in una New York che lo inghiotte come in un labirinto, cerca solo qualcuno con cui parlare davvero. E sarà di nuovo Phoebe a salvarlo: ad ascoltarlo, a parlare con lui, a porlo di fronte alla realtà. A riportarlo a casa, in tutti i sensi.

 

Un finale agrodolce, quello in cui lui sotto la pioggia la guarda girare sulla giostra ed è finalmente sereno. Un finale agrodolce perché si scopre alla fine che la realtà lo sta piegando ancora, mentre scrive chiuso in una struttura e seguito da un psichiatra, l’ennesimo adulto lontano, forse l’ennesima delusione.

 

Se si va oltre, se si ascolta davvero questo ragazzo, se ci si lascia andare in questa lettura, non si può non emergere con dentro un senso di colpa molto forte. Perché ci si sente parte di quegli adulti che sbagliano con lui, fermandosi all’apparenza e deludendolo, lasciandolo solo in un monologo sfiancante che sembra ripetersi all’infinito, rivolto ormai solo a quelle assenze (il fratello morto) più presenti per lui di chi, vicino, ha troppo da fare per fermarsi e rispondere alla sua richiesta di aiuto.

 

Attuale come solo un capolavoro sa essere.



× Ciao!